Con la puntata di oggi entro a gamba tesa nel mondo dello sport, parlando di razzismo, quel razzismo latente che si nasconde dietro al buonismo e che pervade ogni sport ad ogni latitudine.. Gli episodi di razzismo nello sport ci sono sempre stati, ma sono stati spesso taciuti o nascosti perché “The show must go on” e “Pecunia non olet”.
Grazie alle enormi possibilità che abbiamo oggi, di essere connessi con tutto e tutti in tempo reale, siamo in grado di poter sapere e commentare notizie che accadono dall’altra parte del mondo!
Non voglio entrare in discorsi etici o politici perché non è questo il mio contesto, ma voglio solo portarvi all’interno di episodi che hanno segnato a loro modo la storia dello sport e quasi sempre senza portare a cambiamenti significativi.
Inizio con il parlare del fenomeno Black Lives Matter che ormai è uno slogan entrato nel gergo comune, ma dubito che la maggior parte delle persone che ne parlano sappiano veramente cosa voglia dire e cosa il movimento intende sostenere.
Molti infatti hanno legato il BLM al mondo dello sport perché da circa un anno vediamo continuamente questa scritta all’interno di stadi, palazzetti e in ogni luogo dove si svolga un evento sportivo.
Il rischio è che quando una cosa diventa routinaria perda la sua forza, la sua valenza e il suo scopo.
Storia
Per dare due cenni storici, Black Lives Matter, tradotto in italiano “Le vite dei neri contano” nasce all’interno della comunità Afroamericana impegnata dall’alba dei tempi nella lotta contro il razzismo.
Questo movimento è diventato presto internazionale e nacque per manifestare il dissenso e il malumore della comunità black davanti a continui soprusi, abusi e omicidi perpetrati ai danni di persone di colore da parte di membri delle forze dell’ordine americane che spesso non ne pagavano le conseguenze.
Legandomi a ciò che ho detto prima, la percezione del BLM è stata vista non bene da buona parte della popolazione americana che ha creato immediatamente il movimento “All Live Matter” cioè “tutte le vite contano” e poco dopo nacque sempre negli Usa il “Blue Lives Matter” che stava ad indicare che anche le vite dei poliziotti contano.
Ecco come un messaggio nato con uno scopo, viene completamente stravolto e letto con altre mille sfaccettature, tanto da portare l’ex Sindaco di New York Rudolph Giuliani a dichiarare che il movimento BLM è un movimento razzista.
Ma cosa c’entra lo sport in tutto questo????
Diciamo che dal 25 Maggio 2020, giorno dell’uccisione di George Floyd, visto in mondovisione e con il suo ormai tristemente famoso “I cant’t Breath”, lo sport che conta, ma soprattutto gli sportivi che contano hanno messo il BLM sulle cartine del Mondo.
Sì perché anche in questo caso lo sport entra prepotentemente in gioco perché le comunità afroamericane che gravitano negli sport hanno fatto sapere al mondo che la misura era colma.
Owens-Lang: amicizia oltre il nazismo
Siamo nel 1936, l’inizio di un’era buia in cui si stava affacciando sul mondo lo spettro del nazismo, un nazismo che voleva farsi bello davanti agli occhi del mondo, un nazismo guidato da Hitler che ottenne le olimpiadi del 1936 e le organizzò in un modo talmente ineccepibile, talmente moderno, talmente grandioso che nessuno si accorse di cosa stesse covando sotto la cenere.
Chi sta pensando che il razzismo sia legato solo ad Hitler sbaglia e sbaglia di grosso.
Le Olimpiadi del 1936 furono le più controverse della storia e tutti sappiamo perché!
Per l’occasione Hitler eliminò dalle competizioni ogni tedesco di origine ebraica, cosa che non piacque al Comitato Internazionale e a molti Comitati Nazionali tra cui quello americano.
Inoltre, le mire espansionistiche del Fuhrer erano già note, ma per salvaguardare lo spettacolo tutti si turarono il naso permettendo al nazismo di mettere in piedi una Olimpiade a suo modo leggendaria.
Negli Stati Uniti vi fu una forte richiesta di boicottaggio, caldeggiata dalla fiorente e numerosa comunità ebraica, ma proprio in questo momento entra in gioco un personaggio che rimarrà sulla scena sportiva per più di 40 anni: Avery Brundage.
Discreto atleta, nel 1930 diventa vicepresidente della IAAF (Federazione internazionale di atletica leggera) e poco dopo Presidente del Comitato Olimpico Statunitense opponendosi fermamente al boicottaggio.
Il suo atteggiamento viene premiato perché entra a far parte del CIO al posto del connazionale Ernest Lee Jahnke che viene espulso perché apertamente a favore del boicottaggio.
Il primo intervento di Brundage fu quello di sostituire due atleti ebreo-americani della 4×100, Marty Glickman e Sam Stoller per non urtare la sensibilità teutonica. Li sostituì con Jesse Owens e Ralph Metcalfe.
Jesse Owens non solo gareggiò nella staffetta 4×100 americana contribuendo alla vittoria della medaglia doro, ma vinse anche i 100 metri, i 200 metri e il salto in lungo! mettendo in evidente difficoltà i super bianchi che vennero battuti da un atleta di colore. C’è da dire che il Fuhrer non gli diede mai la mano, ma fece i complimenti a Jesse salutandolo con la mano.
Jesse Owens, figlio dell’Alabama più segregata, riuscì ad emergere grazie alle sue doti atletiche diventando la perfetta incarnazione del sogno americano ante-litteram, un figlio della povertà vincitore di 4 ori olimpici, cosa mai avvenuta prima.
Owens si illuse che al ritorno in patria sarebbe stato ricoperto di onori, ma questa illusione si scontrò con una realtà in cui il Presidente di quegli Stati Uniti Roosvelt, in piena campagna elettorale, non gli mandò neanche un telegramma di congratulazioni, cosa che invece fece con gli atleti bianchi vincitori di medaglie.
Pur essendo riconosciuto da tutti gli americani, Owens dovette continuare ad usare le porte di servizio per entrare negli alberghi e spesso non poteva mangiare dove mangiavano i bianchi.
Solo nel 1976, a 40 anni di distanza dalle Olimpiadi, il Presidente Gerald Ford gli rese onore consegnandogli il Collare d’Argento dell’Ordine Olimpico.
Ma siccome l’essere umano spesso supera le differenze imposte da altri, rimane storico il rapporto di Jesse Owens con l’atleta tedesco Luz Long, che ignorando i dettami della civiltà ariana, durante la gara di salto in lungo diede dei consigli ad Owens che lo battè nella finale.
E’ storia la foto in cui i due parlano e dal quale traspare l’umanità di entrambi.
La loro amicizia nata sulla pedana durò a lungo, nonostante le difficoltà di comunicazione evidenti, e si interruppe nel 1943 quando Long morì ad Acate, comune vicino a Ragusa in Sicilia durante lo sbarco degli alleati che portarono alla liberazione dell’Italia, in quanto Long era stato precettato per prestare servizio nell’esercito.
Nel 2000, meglio tardi che mai, il CIO celebrò il gesto tra Owens e Long come il maggior esempio di fratellanza e pace tra i popoli, rispondente ai precetti Decoubertiani.
Le malefatte di Brundage purtroppo non finirono nel 1936 e quello che era evidente a tutti venne ignorato per poi esplodere nel 1941 quando Brundage elogiò pubblicamente il regime Nazista, ma in seguito a tali dichiarazioni, nel 1952, invece di essere bandito da tutte le cariche, venne “promosso” a capo del Comitato Olimpico Internazionale succedendo ad Edstrom.
La cosa incredibile è che nel 1968 sentiremo ancora parlare di lui…
Carlos e Smith: black power a Città del Messico 1968
Passiamo ora al 1968, anno di fervidi cambiamenti e di rivoluzioni sia sociali che nei costumi e con le Olimpiadi affidate a Città del Messico.
Il problema del razzismo in America è sempre vivo e numerosissimi atleti americani decidono di boicottare la partecipazione ai giochi come segno di protesta a seguito dell’uccisione di Martin Luther King.
Molti atleti aderiscono al Black Power, movimento politico radicale diffusosi tra il 1965 e il 1968 tra la popolazione di colore e si rifiutano di partire per il Messico; il più famoso tra gli atleti era Lou Alcindor che tutti conosceremo come Kareem-Abdoul Jabbar uno dei più forti giocatori di basket di tutti i tempi.
Ma due atleti che aderivano al movimento decisero di andare alle Olimpiadi, pensando in ogni momento a come far emergere la loro protesta assolutamente non violenta, per far capire al mondo come i neri in America venivano trattati.
I loro nomi erano Tommie Smith e John Carlos e parteciparono alla gara dei 200 metri dove vinsero rispettivamente oro e bronzo.
Sul podio, al quale arrivarono scalzi, al momento dell’inno statunitense, abbassarono lo sguardo rispetto alla bandiera americana e alzarono un pugno guantato di nero a simboleggiare solidarietà al movimento Black Power.
La cosa ovviamente non passò inosservata e il “prode” Brundage fece espellere i due atleti dal villaggio Olimpico requisendone anche le medaglie.
Brundage è il classico esempio di buoni propositi associati a pessime azioni, da sempre riconosciuto come razzista e antisemita, eppure questo non gli impedì di comandare il Comitato Olimpico Internazionale a suo piacimento rendendosi responsabile di fatti raccontati e di altri che racconterò.
Cassius Clay: la perla di Roma 1960
Ma forse l’esempio di razzismo nel mondo dello sport raggiunse forse il suo apice quando sul palcoscenico sportivo si affaccia un ragazzotto del Kentucky che risponde al nome di Cassius Marcellus Clay.
Quello che ad oggi è il più grande pugile di tutti i tempi, viene iniziato alla boxe da un poliziotto di origine irlandese, cominciando a demolire tutti i record dilettantistici e proprio per questo motivo arrivando ad essere convocato dalla nazionale statunitense di boxe in partenza per le Olimpiadi di Roma 1960.
Penso che tutti voi sappiate cosa fu capace di fare in quelle olimpiadi il buon Clay, ovviamente vinse la medaglia d’oro della sua categoria mettendosi sulla cartina del mondo come uno dei più brillanti atleti mai visti ai giochi Olimpici.
L’aspettativa di Clay si scontrò ben presto con la realtà della segregazione e se la sua figura era tra le più ammirate del mondo, nella sua patria la medaglia d’oro Olimpica non gli permise di portare la sua fidanzata in un ristorante per soli bianchi. Proprio in questa circostanza Clay, che non si separava mai dalla sua medaglia, la prese e la gettò nel fiume Ohio, rinnegando tutto ciò che aveva fatto.
Nel 1964, la sua conversione all’Islam e il cambio del nome in Muhammed Alì non fece che aggravare la sua posizione che non era più solo di “nero”, ma anche di islamico, in un periodo in cui negli Stati Uniti i musulmani non erano certo visti di buon occhio.
Le sue frequentazioni con Malcolm X e il Reverendo Martin Luther King non furono gradite ai politici americani e la ciliegina sulla torta Alì la mise nel 1966 allorquando, chiamato alle armi per andare a combattere in Vietnam, si dichiarò obiettore di coscienza per motivi religiosi.
Quello che può sembrare solo un gesto estemporaneo ha la sua radice proprio nella segregazione al quale, da campione olimpico e campione del mondo dei massimi di boxe, era costretto a subire.
Infatti nel frattempo aveva conquistato la corona in un incontro epico contr Sonny Liston.
Clay non riusciva a capire perché sarebbe dovuto andare in guerra e alle domande dei giornalisti che chiedevano conto del suo rifiuto rispose con una frase che divenne celebre: “Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro”.
Dopo averne subito le conseguenze che gli impedirono di combattere per molti anni, Alì fece ancora in tempo a regalare agli amanti del genere, incontri spettacolari soprattutto contro Joe Frazier, tra cui la famosa “Rumble in The Jungle” in quel di Kinshasa nell’ex Zaire, in un incontro organizzato da Mobutu Sese Seko Presidente zairota, prima di essere sopraffatto dal morbo di Parkinson che lo portò, a partire dalla metà degli anni ’90 ad un irrefrenabile declino fisico.
La rivincita su tutto e su tutti Alì la ottenne alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 quando fu l’ultimo tedoforo, un ultimo tedoforo tremolante, ma con lo sguardo fiero, fiero nell’essere un uomo di colore che nonostante tutto aveva vinto sulle brutture del razzismo e proprio in quell’occasione il CIO gli restituì la medaglia d’oro dei giochi Olimpici di Roma 1960.
Ma se pensate che le cose nel corso del tempo siano cambiate, purtroppo vi sbagliate di grosso.
(continua…)
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by Fabrizio Roscitano